A dispetto di quanto lasci intendere il titolo, il tema centrale di Max: The Curse of Brotherhood non riguarda il significato del legame che intercorre tra consanguinei quanto piuttosto il concetto di libertà nel campo videoludico.

Tutto ha inizio con un banale litigio tra bambini che porta il protagonista Max a cercare su internet una formula magica per liberarsi del fratellino Felix. Sfortuna vuole che la filastrocca restituata dal motore di ricerca funzioni davvero, aprendo un portale dalle cui profondità un grosso arto peloso emerge per afferrare Felix e trascinarlo via con se. A Max resta giusto il tempo di riaversi e lanciarsi nel portale prima della chiusura per iniziare la sua avventura.

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Nei paesaggi dai toni cartoon che dominano la dimensione governata dal malvagio Mustacho, autore del rapimento del piccolo Felix, Max si ritrova ben presto a gestire dei poteri magici legati al suo fido pennarello. Interagendo con alcuni punti dello scenario ben delineati Max può generare – o distruggere – colonne di terra, rami, liane, getti d’acqua sbuffi di fuoco, conferendo loro la forma più gradita in base alle necessità.

Ben presto il giocatore impara a far interagire tra loro gli elementi di cui ha controllo, legando le liane alle colonne di terra per creare passaggi sospesi o ancora modellano alla bisogna le forme dei rami di modo che questi possano costituire ostacoli per le minacciose creature contro le quali Max si trova sostanzialmente indifeso.

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Il controllo sugli elementi naturali è in realtà solo apparente, e profondamente sottomesso al design dei singoli puzzle, eppure nella maggior parte dei casi Press Play si è rivelata abbastanza abile da mascherare il meccanismo e far credere al giocatore che la risoluzione dell’enigma dipenda del suo intuito e non dall’adesione all’unica via d’uscita prevista.

La mimesi si inceppa di rado, principalmente in quelle situazioni che richiedono il ricorso a dinamiche trial & error, che tuttavia fungono da blueprint per i trabocchetti a venire, a quel punto destinati ad essere superati in scioltezza rafforzando l’idea di controllo della realtà videoludica laddove invece il giocatore sta inconsapevolmente aderendo a uno script disegnato intorno alla sua reazione prevista.

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Mentre nella sua profondità dunque Max: The Curse of Brotherhood rimastica la velleitaria libertà di un personaggio videoludico, giocando con la percezione dei limiti che è concesso avvertire al giocatore, in superficie dialoga invece con la percezione visiva, facendo leva su uno stile vicino alle produzioni Pixar che permette al gioco di ingannare piacevolmente l’occhio negli sbalzi tra il giocato e le scene d’intermezzo, dando vita a una piacevole soluzione di continuità che dà un senso alla sua natura next-gen, nonostante l’impianto di gioco sia mosso da Unity, motore estremamente versatile, ma non certo famoso per le sue prestazioni grafiche.

Nella miseria dell’attuale line-up di Xbox One, Max: The Curse of Brotherhood si presenta dunque come una divertente commistione tra platform e puzzle, per quanto sbilanciata verso quest’ultima componente anche a causa di una non perfetta gestione dei controlli, un’occasione per dedicarsi a un gioco che richiede l’attività del cervello più che quella delle dita per essere portata a termine, offrendo al contempo lo spunto per una riflessione su cosa sia vero e cosa no all’interno di un mondo posticcio come quello del videogioco.

 

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SCHEDA TECNICA:
Titolo: Max: The Curse of Brotherhood
Sviluppatore: PressPlay
Genere: Platform/Puzzle 
Piattaforma: Xbox One
Prezzo:  14.99 euro

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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